Dopo aver intervistato nel corso del tempo alcuni programmatori che hanno lavorato per Idea Software, incontriamo finalmente l’artefice di questa fortunata operazione, Antonio Farina, che avrebbe ottenuto negli anni successivi onori e successi nel mondo PC, fondando prima Graffiti e poi Milestone. Con Antonio affrontiamo in questa chiacchierata un discorso relativo alla sua intera carriera, analizzando come è stato possibile sviluppare videogiochi in Italia, nell’era degli otto e sedici bit e come è possibile farlo adesso, notando analogie e differenze tra le due epoche.
Antonio, ti ringrazio davvero per la tua disponibilità: la prima cosa che ci interessa conoscere è ovviamente com'è stata creata Idea Software; insomma, per usare un gioco di parole, come è nata l’idea dell’Idea.
È molto semplice: Idea rappresentava un marchio. La società era la S.C., ovvero Software Copyright, semplicemente la S.r.l. dietro al marchio, appartenente al gruppo Leader. Leader ai tempi era uno dei principali distributori italiani, che ha fatto il ragionamento opposto rispetto al suo business di base, cioè ha detto, semplificando: "noi stiamo comprando dal mondo e distribuiamo in Italia, perché non sviluppiamo in Italia e distribuiamo al mondo?" Il marchio Idea era senz’altro più visibile del piuttosto anonimo S.C.
Questa è stata la partenza di tutto il discorso publishing e, arrivati a quel punto, cercavano una persona che si occupasse dell’azienda: ci siamo trovati, piaciuti, e ho cominciato a lavorare a Varese per questa nuova attività. Io sono di Verona, tra l’altro.
I vostri primi prodotti sono stati per Commodore 64 e per Amiga, avete distribuito rispettivamente Moonshadow di Paolo Galimberti e Bomber Bob di Stefano Lecchi. Quindi la direzione verso cui procedere, cioè i computer della Commodore, era già stata decisa sin dall’inizio…
Sì, come sempre, si trattava semplicemente di una questione di mercato: ai tempi ciò che andava era fondamentalmente Amiga e, in misura minore, il Commodore 64: quest’ultimo all’inizio di Idea resisteva ancora bene, ma sempre meno nel corso del tempo. Amiga comunque era già il formato principale di riferimento.
Tutti i programmatori Idea erano freelance, quindi la società era formata da te e poche altre persone interne, immagino…
Puoi anche togliere le “altre persone interne” (sorride).
Idea eri tu, quindi!
Praticamente sì, ero io.
I vari giochi quindi erano sviluppati autonomamente e poi verificati a Varese e distribuiti; voglio dire, tutti più o meno lavoravano da casa, giusto?
Autonomamente, sì, gli sviluppatori lavoravano da casa: non c’era nessuna persona interna a Varese a occuparsi della programmazione. Io coordinavo i gruppi di lavoro e decidevo il design nel caso di prodotti nuovi.
Prendiamo Moonshadow per esempio: in questo caso si trattava di un prodotto già formato, quindi è stato preso in mano da Idea solamente per le parti finali: ci saranno sicuramente stati dei piccoli aggiustamenti, ma tutto già esisteva quando Paolo Galimberti era venuto a presentarlo, quindi lo sviluppo è stato piuttosto semplice da seguire.
Prendiamo invece il caso di Bomber Bob per Amiga: il gioco non esisteva, c’erano solamente delle routine di scrolling fluide, ben fatte, al sessantesimo di secondo, e il gioco era più impostato come uno sparatutto alla Xenon, per intenderci. A quel punto ecco cosa abbiamo pensato: l’idea di base era buona ma fare uno sparatutto classico aveva meno senso, proviamo quindi a inventarci qualcosa di diverso.
Ho dunque creato il design, aggiunto un grafico al team (Luca Stradiotto, lo stesso che ha poi lavorato su Lupo Alberto) e da lì è venuto fuori Bomber Bob: un prodotto più originale del precedente, ma che comunque sfruttava la tecnologia che ci era stata presentata da Stefano Lecchi.
A proposito di questo, ho sempre notato una tua attenzione nei confronti di ciò che al momento funzionava bene sul mercato: Bomber Bob è introdotto dalla canzone di Francesco Salvi, personaggio molto noto in quel periodo; nello stesso modo hai prodotto una serie di videogiochi ispirati a fumetti di successo.
Sì, vero, l’unico problema in questo senso è che si trattava di cose note in Italia ma non molto all’estero, per cui erano prodotti che, pur ambendo a essere internazionali, avevano per alcuni aspetti una valenza maggiormente locale.
Lupo Alberto, per esempio, era comunque un platform “carino”, poteva andare ovunque nel mondo, però è chiaro che le grosse vendite erano state fatte nel nostro paese a causa della notorietà del personaggio. Abbiamo sempre cercato di fare dei prodotti che fossero sì basati su licenza, ma che poi potessero funzionare anche se la licenza non era conosciuta.
È chiaro che la canzone di Salvi fuori dall’Italia non la conosceva praticamente nessuno: si trattava di operazioni di marketing per cercare di valorizzare maggiormente i prodotti e inventarsi qualcosa che potesse aiutare un po’ a spingerli.
Oltre a questo, la Idea ha focalizzato la sua attenzione anche sul calcio, con diversi prodotti in tal senso, immagino a causa della popolarità di questo sport.
Vero, se non ricordo male il primissimo era stato semplicemente la localizzazione di un gioco Audiogenic…
Sì, proprio a questo proposito vorremmo chiederti come avevate ottenuto la licenza di Emlyn Hughes International Soccer.
S.C. prima di occuparsi di sviluppo era una società messa in piedi da Leader prima ancora che io entrassi, a cui erano appoggiate alcune operazioni che, fondamentalmente, riguardavano l'acquisizione di licenze relative a prodotti esteri per venderle alle riviste italiane. In modo ufficiale, certo, al contrario delle pessime abitudini dell’epoca. Proprio da quello derivava il nome Software Copyright.
Ma si occupava anche di localizzarli in italiano?
Non saprei dirti complessivamente, dato che l’operazione di Retee in questo senso era stata particolare: di solito i giochi non venivano localizzati ma semplicemente acquistati e passati a chi ne faceva richiesta, poiché Leader aveva i contatti con i publisher esteri ed era facilitata in questo processo.
Nel caso Audiogenic non ricordo i singoli dettagli ma c’è stata di sicuro un’operazione analoga, però esisteva già S.C. come struttura, quindi c’ero già io: Retee era uscito sotto marchio Idea con la traduzione e anche qualche cambio di grafica, tipo dei banner a bordo campo e così via.
La produzione per C=64 della Idea può essere divisa a grandi linee in due fasi: una iniziale con dei prodotti originali per questa macchina, come Moonshadow o F1 GP Circuit; una successiva in cui erano i prodotti Amiga a tirare il mercato, e tu comunque hai continuato a cercare di produrne delle conversioni a otto bit. C’era dunque ancora richiesta per il C=64?
Esatto, c’era comunque una certa richiesta ed è questo il motivo per cui si cercava di far uscire i prodotti su più formati, ovviamente con tutti i problemi e le limitazioni del caso. È chiaro che all’inizio si è provato a fare scouting, a vedere cosa esisteva in Italia, a chi aveva già dei prodotti pseudo-pronti o comunque se c’erano persone che fossero in grado di lavorare nel settore.
La primissima cosa quindi è stata prendere prodotti che già esistevano in qualche forma, farli completare e pubblicarli, ovviamente con una grande selezione, perché immagino ci sia arrivata molta più roba di quella che è stata effettivamente pubblicata da noi. In Idea, se non ricordo male, abbiamo pubblicato una decina di titoli multipiattaforma e io continuo a dire che è stato miracoloso riuscire a farcela con una struttura del genere (sorride).
Quello che succedeva è che le persone con le quali entravamo in contatto potevano avere un buon prodotto oppure no. In caso positivo veniva preso in considerazione per essere pubblicato; se invece il gioco non era pubblicabile ma si trattava di persone capaci, allora si cominciava a lavorare per sviluppare un nuovo prodotto diverso. Si cercava quindi di capire un po’ sulla base delle loro competenze che tipo di prodotto si potesse fare, ci si inventava il design e si cominciava a costruire il gruppo di sviluppo per continuare a portare avanti il tutto.
Tornando a parlare dei titoli su licenza fumettistica, mentre Lupo Alberto è uscito per C=64 e Amiga, Sturmtruppen invece solo per quest’ultimo. Ti ricordi cos’è accaduto?
Se non ricordo male, nel caso in questione, ci sono stati dei problemi coi tempi di sviluppo[1]. Era molto importante, come del resto lo è tuttora, massimizzare il lancio di un videogioco facendo uscire contemporaneamente tutte le versioni per le varie piattaforme, nei limiti del possibile.
Quando la fase di sviluppo invece si allunga, succede anche che i distributori non accettino più il prodotto; far uscire una versione da sola tot mesi dopo non ha più senso e così via. A ciò aggiungiamo che si parla del 1992, la base degli utenti C=64 diminuiva e anche l’interesse verso questa macchina credo stesse ormai scendendo rapidamente.
Da questo punto di vista, facevate ricerche di mercato per capire in che direzione si muovesse l’interesse delle persone?
Avevamo il vantaggio di essere legati a Leader, che ovviamente era in contatto col mondo intero, quindi si conoscevano le potenzialità del mercato relative ai vari formati ed era molto chiaro cosa si vendeva in Italia, grazie a tutti gli altri prodotti esteri distribuiti: da questo punto di vista avevamo molti dati di vendita. Poi, che un gioco funzionasse o meno è tutto un altro discorso. Direi che la situazione non è cambiata neanche oggi e rimane un grosso punto interrogativo: la sfera di cristallo non la possiede ancora nessuno.
Invece, dal punto di vista dei contatti, tu eri completamente indipendente dalla Leader per quanto riguarda la supervisione dei progetti oppure c’erano riunioni, con Holder e gli altri, per le decisioni da prendere?
Certo, ovviamente si facevano delle riunioni, però gestivo il tutto piuttosto autonomamente nel senso che, è chiaro, ci tenevamo aggiornati periodicamente per sapere cosa stavamo sviluppando, oppure presentando le idee che avevo per nuovi progetti da iniziare, vedevamo se c’erano opportunità e cose da fare e così via.
Abbiamo accennato prima ai vari mercati: quali sono stati i maggiori successi di Idea all’estero e quali giochi invece non sono andati bene?
Successi clamorosi credo non ce ne siano mai stati, posso affermare che nessuno si è veramente arricchito con questo tipo di prodotti. Lupo Alberto era andato piuttosto bene in Italia, mentre all’estero appariva come un platform qualunque, simile a molti altri, senza quindi un particolare appeal.
Bomber Bob, che è stato uno dei primissimi, aveva preso delle ottime recensioni all’estero su qualche rivista Amiga in Inghilterra[2] ed era in fondo un prodotto che sbucava dal nulla, senza alcun personaggio noto, dunque era piaciuto in quanto tale.
Avevamo ceduto la licenza di Clik Clak all’estero e ne erano state prodotte anche versioni per Game Gear e Gameboy da terze parti, credo però che nessun prodotto abbia fatto dei numeri veramente entusiasmanti.
Hai appena accennato alle riviste: dato che allora un buon voto poteva condizionare gli acquisti di molte persone, i contatti li tenevi tu o chi altro? Ti sei mai arrabbiato per qualche giudizio negativo ricevuto in sede di recensione?
A memoria, credo ci appoggiassimo alla parte PR di Leader per quanto riguarda i comunicati stampa e l’invio dei prodotti finiti per le prove, poi al momento della presentazione del singolo gioco, quando veniva contattata tutta la stampa, è chiaro che me ne occupavo direttamente io. In quel senso ho avuto certamente un contatto diretto, certo.
Arrabbiature per recensioni che non andavano come avrei voluto e cose del genere, direi proprio di no: è normale che questo accada, sia nel bene che nel male, e non ho mai avuto problemi con nessuna rivista in particolare.
Il problema della pirateria come era sentito nella tua software house?
Come per tutti, si trattava di un problema che si è sempre sentito molto. Non so se adesso sia meglio o peggio, sinceramente non credo che la situazione sia cambiata di molto in fondo: allora comunque la pirateria era fortissima. Dato che era un problema comune a tutti, Idea non è stata colpita più dei concorrenti: in fondo purtroppo fa parte del gioco.
In ogni caso Leader certamente è sempre stata molto attiva nei confronti della cosiddetta pirateria “professionale” che è quella che faceva più danni, certamente più del ragazzino che si faceva la copia di qualche gioco. Abbiamo fatto anche qualche tentativo di proteggere i giochi coi vari software che giravano, ma ritengo che queste strategie di protezione non siano mai servite a molto.
C’erano dei contatti effettivi con le altre software house italiane concorrenti, Simulmondo e Genias, oppure no? In generale diversi programmatori sono passati dall’una all’altra nel corso della loro carriera, per esempio persone in Genias che poi hanno lavorato per te, o viceversa.
Da quello che mi ricordo, oggi se vogliamo c’è molta più serenità e molta più apertura nei rapporti tra le varie realtà che operano nel settore, mentre allora direi decisamente di no. C’era una scarsità enorme di risorse e chi ne trovava una se la teneva ben stretta. Non ho ricordi di aperture nei confronti delle altre aziende che, alla fine, si contavano su una mano.
Conoscevo Francesco Carlà, che ho incontrato varie volte, ma non abbiamo avuto scambi lavorativi; per quanto riguarda Genias invece credo che non ci siamo mai approcciati del tutto.
Ci avviciniamo quindi alla conclusione, nel senso: perché il progetto Idea è terminato e hai iniziato il tuo percorso autonomo con Graffiti e poi Milestone?
Credo che fosse un po’ il momento di prendere delle decisioni più drastiche, cioè dopo tre anni di vita di Idea ci si è messi intorno a un tavolo a discutere. La questione fondamentale era che, se si vuole realizzare qualcosa di serio, non è possibile farlo solo con persone esterne; bisognava quindi costituire un vero studio di sviluppo, con persone interne a tempo pieno e così via. Da parte di Leader al tempo non c’era la volontà di andare in questa direzione, così a quel punto ho proseguito per la mia strada.
A posteriori, si può dire che questa è stata una decisione particolarmente azzeccata.
È andata bene, sì!
E l’esperienza in Idea ti è servita per il percorso successivo?
Assolutamente sì, è stata una grande esperienza, dato che mi ha permesso di conoscere molto meglio il settore dei videogiochi e tutto quello che c’era dietro, di lavorare con delle persone molto in gamba, alcune delle quali hanno collaborato con me anche successivamente.
Insomma ho avuto la possibilità di farmi le ossa, poiché chiaramente la mia esperienza iniziale era pari a zero: togliendo le cose a livello hobbistico o la molta passione per il settore, l’esperienza lavorativa va decisamente fatta sul campo.
Sono sempre stato un grande appassionato di tecnologia e faccio parte un po’ di quella schiera di persone nate a metà tra lo Spectrum e il Commodore 64: io infatti, proprio agli albori dell’home computing ero uno spectrumista, quando ci si ritrovava in quei negozietti dove vendevano computer e allora ci sembrava un mondo incredibile, che nessuno conosceva ancora bene. Sono nato da lì, in pratica.
Per quanto riguarda il periodo Idea nella sua interezza, c’è un gioco che ricordi con particolare piacere?
Devo dirti di no, non ho un gioco in particolare sul quale posso dire di essermi divertito a fare questo o quello, è stato piuttosto globalmente un periodo interessante, che mi sono goduto un po’ con tutti i prodotti.
Magari c’erano delle persone con le quali avevo più feeling e altre con le quali ne avevo di meno, la differenza al limite può essere questa, ma in linea di massima direi che non ho mai avuto problemi particolari con nessuno e siamo riusciti a portare avanti molti progetti fino in fondo. Come dicevo in precedenza, mi sembra miracoloso che siamo riusciti a fare tutta questa roba coi mezzi e la struttura di allora.
Cosa pensi del fatto che l’Italia dei videogiochi si sia svegliata tutto sommato così tardi rispetto all’arrivo dei computer a 8 bit, e come vedi invece il mercato attuale?
Questo mi piace continuare a ripeterlo, perché spesso mi chiedono come mai in Italia i videogiochi non sono mai partiti come business, come mai ci sono poche aziende e così via: l’unica risposta sensata è che fare videogiochi è un mestiere difficilissimo, quindi non è che non siamo mai partiti, piuttosto un mucchio di gente ci ha provato, ma pochi riescono veramente a portare avanti un qualcosa che funzioni nel tempo.
Questo accade ovunque nel mondo: ci sono paesi che per tradizione hanno iniziato prima, oppure con più persone che si dedicano al settore ma le difficoltà ci sono dovunque, non è che l’Italia abbia dei requisiti negativi che le impediscano di realizzare prodotti in un certo modo: le aziende che sono sorte nel corso del tempo penso lo abbiano dimostrato anche in positivo.
Allora c’era anche un problema di conoscenze di programmazione in senso stretto, si utilizzavano linguaggi di bassissimo livello, difficili da imparare e con poca documentazione; oggi come oggi tutto è più semplice da un certo punto di vista: c’è la distribuzione digitale, ci sono i linguaggi di alto livello, su internet si trova di tutto in merito a documentazione e tutorial, oggi non ci sono più scuse per non provarci almeno! (sorride)
Una volta c’erano anche un sacco di ostacoli pratici. Se pensi che i prodotti Idea sono stati sviluppati spedendo continuamente dischi e cassette da tutte le parti d’Italia, che poi confluivano da me a Varese: materiale che provavo personalmente uno per uno, col rischio ogni volta che qualcosa fosse andato storto. È allucinante se vediamo quello che possiamo fare adesso, anche a raccontarlo sembra una roba preistorica…
Immagino che i tempi di sviluppo si dilatassero all’infinito anche solo a causa di questo.
Già, pensa a dover aspettare ogni volta il corriere con il pacchettino, altro che internet.
Dopo molti anni hai lasciato Milestone per una realtà più piccola, Reludo, con progetti non so se effettivamente simili a quelli di Idea, ma comunque analoghi in quanto a modalità di sviluppo e tempistiche. Si tratta di una specie di ritorno alle origini per te?
Assolutamente sì e sono molto felice, devo dirti, perché l’esperienza Milestone è stata esaltante: ha funzionato davvero bene, facendo uscire giochi molto belli e lavorando coi maggiori publisher al mondo. Tutte le cose prima o poi hanno anche una fine, quindi per me e? stata una grande sfida quella di lasciare al di la? del fatto che, come saprai, io avevo ceduto l’azienda lungo strada (guarda caso a Leader) e il mio ruolo chiaramente era diventato diverso.
Questa nuova prova quindi mi ha rimesso decisamente in gioco, hai ragione, un po’ come ai tempi di Idea: da questo punto di vista siamo tornati indietro nel tempo. La cosa bella è che ovviamente sono progetti molto più piccoli, che sono tornato a seguire direttamente io: chiaramente un’azienda come Milestone, che ha un centinaio di persone nell’organico, possiede una struttura complessa in cui c’è il designer, il producer, programmatori e grafici di tutti i tipi, quindi “tocchi” il prodotto solo molto dall’alto.
Qua invece rimetto di nuovo le mani in pasta e, soprattutto, si trattava un po’ di una sfida con me stesso, per vedere se ero ancora in grado in fondo di fare lo sviluppatore indipendente. Quindi siamo tornati “indie” e certamente ci sono grandi rischi, come in tutte le cose di questo genere, ma anche grandi soddisfazioni.
Note:
[1] Fatto confermato per esempio anche in "Programmando s'impara", Zzap! numero 63 (Gennaio 1992) pagg. 60-62: "(...) la versione Amiga è praticamente finita, a due mesi e mezzo dall'inizio effettivo della programmazione siamo arrivati agli ultimi ritocchi, la versione 64 richiederà ancora un paio di mesi. Speravo in un'uscita in contemporanea ma non è stato possibile, è dipeso dal grafico, che più di tanto non può fare contemporaneamente."
[2] In particolare su CU Amiga, 88% nel numero di Agosto 1988